mercoledì 11 novembre 2015

Morte di Didone

584 E già la prima Aurora lasciando il giaciglio di croco
585 di Titone spruzzava le terre di nuova luce.
586 La regina dalle finestre come vide biancheggiare
587 la prima luce e la flotta procedere a vele spiegate
588 e s'accorse dei lidi e dei porti vuoti senza un rematore,
589 percuotendo il bel petto con la mano e tre e quattro volte
590 e sciolta nelle biondeggianti chiome "Oh Giove. Andrà
591 costui, dice, e lo straniero si befferà dei nostri regni?
592 Gli altri non prenderanno le armi, non lo inseguiranno da tutta la città
593 e strapperanno le barche degli arsenali? Andate,
594 rapidi portate fiamme, date armi, spingete i remi.
595 Che dico? O dove sono? Che pazzia cambia la mia mente?
596 Infelice Didone, ora fatti sacrileghi ti colpiscono?
597 Allora andò bene, quando davi lo scettro.
598 Colui che dicono portare con sé gli antichi Penati,
599 e aver portato sulle spalle il genitore sfinito dall'età!
600 Non avrei potuto dilaniare il suo corpo dopo averlo sbranato e spargerlo
601 alle onde? Non avrei potuto uccidere i compagni e lo stesso Ascanio con la spada
602 e porli da mangiare alla tavola del padre?
603 Ma in realtà la sorte della battaglia sarebbe stata incerta. Lo fosse pur stata:
604 chi avrei dovuto temere io, destinata a morire? Avrei potuto portare le fiaccole negli accampamenti
605 incendiare i ponti delle navi, uccidere il padre e il figlio
606 con tutta la loro razza, e gettarmi io stessa sopra.
607 Sole, che illumini con i tuoi raggi tutte le opere della Terra,
608 tu, Giunone, consapevole e complice di queste mie pene,
609 tu, Ecate, ululata nei trivi notturni nelle città,
610 e voi, terribili vendicatrici, e Dei della morente Elissa,
611 accogliete queste parole e rivolgete contro il male la vostra volontà meritata con le mie sventure,
612 e ascoltate le nostre preghiere. Se a quel maledetto è necessario
613 toccare un porto o giungere alla terraferma,
614 e così chiedono i fatti di giove, questa cosa è ineluttabile:
615 "Che almeno sia tormentato dalle armi e dalla guerra di un popolo audace,
616 lontano dalla patria, strappato dall'abbraccio di Iulio,
617 chieda l'aiuto e veda l'indegna morte dei suoi;
618 né quando si sarà consegnato alle leggi di una pace svantaggiosa ,
619 goda del regno o della vita desiderata,
620 ma cada prima del tempo e insepolto sulla sabbia.
621 Queste cose chiedo, verso queste ultime parole con il mio sangue.
622 Poi, voi, o Tiri, la stirpe e le genti future
623 Esercitate nell'odio, e mandate questi regali al nostro cenere.
624 Nessun amore e nessun patto di amicizia ci sia fra i popoli.
625 Nasca qualche vendicatore dalla nostra discendenza
626 che insegua con il fuoco i Troiani e con il ferro i coloni,
627 ora, sempre e in qualsiasi momento si presenti l'occasione.
628 Siano i lidi ostili ai lidi, le onde alle correnti, le armi alle armi,
629 combattano loro stessi e i loro discendenti". Queste cose diceva
630 e versava l'animo da ogni parte, desiderosa di interrompere
631 Quanto prima l'odiata vita. Allora brevemente
632 parlò a Barce, la nutrice di Sicheo
633 (infatti la patria antica e il cenere scuro tenevano la sua nutrice):
634 "O nutrice a me cara fa venire qui davanti a me la sorella Anna
635 dille che si affretti ad aspergere il corpo di acqua fluviale
636 e che conduca con sé gli animali e gli strumenti per l'espiazione.
637 Così venga, e tu stessa copri le tue tempie con bende adatte al sacrificio.
638 È nel mio animo compiere i sacrifici a Giove Stigio,
639 compiere le cose sacre che secondo i riti preparai
640 ed è mia intenzione porre fine alle mie preoccupazioni e dare al fuoco le immagini del corpo di Dardano"
641 Così disse e quella affrettava il passo senile,
642 intanto trepidante e inferocita dai preparativi mostruosi
643 Didone volgendo lo sguardo iniettato di sangue e chiazzata di macchie
644 sulle tremule guance pallida per la morte imminente
645 alle più interne soglie della sua dimora si lancia
646 e furibonda sale gli alti gradini del rogo e sfodera la spada
647 dardana non ottenuta per questo uso.
648 Qui dopo che vide le vesti iliache e il noto letto
649 avendo indugiato un po’ con le lacrime e con la mente
650 si buttò sul letto e disse le ultimissime parole.
651 "Oh dolci spoglie, finche il fato e gli dei lo permettevano,
652 accogliete questa vita (anima) e scioglietemi dalle preoccupazioni.
653 Ho vissuto pienamente, ho seguito il destino che la sorte mi aveva assegnato,
654 e ora una grande immagine di me andrà nell'oltretomba.
655 Ho costruito una città famosa, ho visto le mie mura
656 vendicando mio marito, ho ricevuto pene dal fratello nemico:
657 felice, ahimè, molto felice sarei stata
658 se le navi dardane non avessero mai toccato
659 le nostre spiagge". Disse, e dopo aver dato l'ultimo saluto al letto,
660 "morrò invendicata, ma che muoia!" disse. "Così, è giusto andare nell'Aldilà.
661 Beva con gli occhi questo fuoco
662 il crudele dardano dall'alto mare e porti con sé i presagi della nostra morte".
663 Aveva detto ciò, e nel mezzo di tali parole
664 le ancelle la videro cadere sulla spada
665 e videro la spada spumante di sangue
666 e le mani abbandonate. Si spande il clamore nelle altre stanze e la notizia (fama) infuria per la città sconvolta.
667 Le case risuonano di lamenti, gemiti e urla femminili,
668 risuona l’aria di grandi colpi
669 come se, entrati i nemici,
670 precipitasse tutta Cartagine o l’antica Tiro e le fiamme devastanti
671 si propagassero fin nelle case degli dei e degli uomini.
672 Sentì la sorella pallida e senza fiato per l’improvvisa corsa
673 deturpandosi con le unghie il volto e battendosi con i pugni il petto,
674 irruppe nelle stanze e chiamò per nome la morente:
675 “Allora, sorella, era questo? Mi cercavi per ingannarmi?
676 Questo mi preparavano il rogo, questi fuochi e gli altari?
677 Di cosa io abbandonata mi lamenterò per primo?
678 Tu destinata a morire hai disprezzato la sorella compagna? Magari mi avessi chiamato al tuo stesso destino:
679 Lo stesso dolore e la stessa ora avrebbero ucciso entrambe con la spada.
680 Allora con queste mani io ho costruito (il rogo) e con questa voce ho invocato gli dei patrii,
681 in modo tale da poter io crudele essere lontana dopo averti deposto.
682 Hai ucciso, sorella, te e me e il nostro popolo
683 e gli antenati Sidoni e la tua città. Lasciate che io lavi la ferite,
684 e, fatemi cogliere le ultime parole se ancora rimane qualche fiato”.
685 Dopo aver detto queste cose aveva salito gli alti gradini
686 e stringeva al seno, dopo che l'ebbe abbracciata, la sorella morente,
687 mentre piangendo asciugava con il vestito lo scuro sangue.
688 Quella (Didone), avendo tentato di aprire i pesanti occhi,
689 svenne morente: dolorava la profonda ferita nel petto.
690 Tre volte si alzò, appoggiandosi sul gomito,
691 tre volte ricadde sul letto e con gli occhi erranti
692 cercò la luce nel cielo e gemette avendola trovata.
693 Giunone onnipotente dopo aver commiserato il lungo dolore
694 e la difficile morte, mandò Iride dall'Olimpo,
695 affichè liberasse l'anima combattuta e le affannate membra.
696 Infatti, poiché non moriva né per il volere del fato e né per una morte meritata,
697 ma disgraziatamente prima del giorno stabilito fu accesa da un improvviso furore
698 quando non ancora Proserpina aveva tagliato dal capo il biondo capello
699 e non ancora aveva condannato la persona all'Orco Stigio.
700 Allora Iride con la piume gialle bagnate di rugiada, attraverso il cielo,
701 Trascinando mille vari colori, essendo il sole opposto a lei,
702 vola e si posa sopra Didone e dice: "Questo capello, io
703 come mi è stato ordinato, porto a Dite, e ti sciolgo da questo corpo".
704 Dicendo così, tagliò il capello con la destra e in un momento
705 tutto il calore si dissolse e tra i venti volò via la vita.

 

Illa gravis oculos conata attollere rursus
deficit; infixum stridit sub pectore vulnus.
Ter sese attollens cubitoque adnixa levavit,
ter revoluta toro est oculisque errantibus alto
quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta.
Tum Iuno omnipotens longum miserata dolorem
difficilisque obitus Irim demisit Olympo
quae luctantem animam nexosque resolveret artus.
Nam quia nec fato merita nec morte peribat,
sed misera ante diem subitoque accensa furore,
nondum illi flavum Proserpina vertice crinem
abstulerat Stygioque caput damnaverat Orco.
Ergo Iris croceis per caelum roscida pennis
mille trahens varios adverso sole colores
devolat et supra caput astitit. “Hunc ego Diti
sacrum iussa fero teque isto corpore solre solvo”:
sic ait et dextra crinem secat, omnis et una
 dilapsus calor atque in ventos vita recessit.

giovedì 10 settembre 2015

Terra!

 
La struttura del pianeta



 
 
Un video per cercare di capire (circa 5 min)
 
Le parti da cui è composta la crosta terrestre
 
 
 
Documentario sulla deriva dei continenti (durata circa 30 min)
 
 
 
Collegati all'altra pagina di questo blog che approfondisce il tema dei vulcani
 

mercoledì 15 aprile 2015

PROVA CARTOGRAFIA III C

Immagine n. 1



Immagine n. 2



Immagine n. 3



Immagine n. 4



Immagine n. 5


Immagine n. 6


Immagine n. 7




Immagine n. 8



Immagine n. 9




Immagine n. 10


venerdì 27 marzo 2015

RVF XXXV E RVF CXXVI

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

5Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
10et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

Solo e triste per i più deserti campi sto camminando con passi lenti (S. M.) guardando con concentrazione (m.M.) per fuggire dal cammino di qualcun altro (E. C.) (per sfuggire dalle persone D.B.) Non trovo altra soluzione (G.I) per non farmi notare (A. D'.A) perchè,   dai miei gesti privi di allegria, si capisce che dentro brucio (M.B.) per cui io credo ormai che monti, spiagge fiumi e foreste sappiano (l b9 di che genere è la mia vita, che è nascosta agli altri (e.c.) Ma non so trtovare vie abbastanza isolate, deserte, che l'Amore non venga sempre con me nella mia testa (S. M. e A. d'a)




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Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
5(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
10aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

S’egli è pur mio destino
15e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
20La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
25né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
30et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
35vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

40Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
45coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
50qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: Qui regna Amore.

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
55Costei per fermo nacque in paradiso.
Cosí carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sí diviso
60da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
65questa herba sí, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.

lunedì 9 febbraio 2015

Esercitazione carte e grafici



Per ogni immagine dobbiamo definire:
1) se si tratta di carta o di grafico 
2) che tipo di carta o grafico è 
3) per le carte, quale zona del pianeta rappresentano 
4) cosa viene evidenziato nella carta o nel grafico 


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mercoledì 4 febbraio 2015

L'espansione coloniale italiana anteriore alla I GM - prima fase

Testi da Wikipedia

 

Impero coloniale italiano


██ Italia
██ Colonie
██ Territori occupati fra il 1940 e il 1942 e protettorati






Colonie italiane nel 1914.
Subito dopo l'Unità, il Regno d'Italia iniziò ad ambire possedimenti coloniali.

Le colonie italiane prima della I GM furono in Africa l'Eritrea, la Somalia Italiana, la Libia (strappata all'Impero ottomano nel 1912)

PRINCIPE
Fin dal 1861 con Cavour vi fu un tentativo poco conosciuto - stroncato prontamente da inglesi e francesi - di creare una piccola colonia, inizialmente commerciale, sulla costa della Nigeria e nell'isola portoghese del Príncipe[5].












 TUNISIA E ALGERIA
Primi tentativi: Tunisia, quartiere de La Goletta 

Ma la Francia se ne impadronì nel 1881.
Frizioni con la Francia si ebbero, nel medesimo periodo, anche in Algeria dove a Bona era attiva una comunità italiana di pescatori di corallo.





Ne approfittiamo per guardare il corallo (vivo, con le zampine dei molluschi fuori, nella prima foto).





ERITREA 

Giuseppe Sapeto, prete missionario, percorse le rive del Mar Rosso e fu uno dei fautori dell'espansionismo coloniale italiano.
Nel 1837 si stabilì ad Adua e scrisse alcune opere sull'Eritrea e l'Abissinia. Successivamente insegnò la lingua araba a Parigi, Firenze e Genova.
Nel novembre del 1869, ritornato in Africa, acquistò per conto della compagnia di navigazione di Raffaele Rubattino, la baia di Assab. Nel 1882 la proprietà venne ceduta al Regno d'Italia, divenendo il primo possedimento italiano d'oltremare.

Quando gli egiziani dovettero ritirarsi dal Corno d'Africa nel corso del 1884, i diplomatici italiani fecero un accordo con la Gran Bretagna per l'occupazione del porto di Massaua che assieme ad Assab formò i cosiddetti possedimenti italiani nel Mar Rosso (dal 1890 denominati Colonia eritrea).
adwa da satellite

ETIOPIA
Diverso il caso dell'Etiopia, allora retta dal Negus Neghesti (Re dei Re) Giovanni IV, ma con la presenza di un secondo Negus (Re) nei territori del sud: Menelik.
Attraverso gli studiosi e i commercianti italiani che frequentavano la zona già dagli anni sessanta, l'Italia cercò di dividere i due Negus al fine di penetrare, dapprima politicamente e in seguito militarmente, all'interno dell'altopiano etiopico.

Nel 1889 l'Italia ottenne, tramite un accordo da parte del console italiano di Aden con i rispettivi sultani, i protettorati sul sultanato di Obbia e su quello della Migiurtinia. Nel 1892 il Sultano di Zanzibar concesse in affitto i porti del Benadir (fra cui Mogadiscio e Brava) alla società commerciale "Filonardi". Il Benadir, sebbene gestito da una società privata, fu sfruttato dal Regno d'Italia come base di partenza per delle spedizioni esplorative verso le foci del Giuba e dell'Omo e per l'assunzione di un protettorato sulla città di Lugh.

A seguito della sconfitta e della morte dell'imperatore Giovanni in una guerra contro i dervisci sudanesi, l'esercito italiano in stanza a Massaua occupò una parte dell'altopiano etiopico, compresa la città di Asmara, sulla base di precedenti ambigui accordi fatti con Menelik il quale, con la morte del rivale, era riuscito a farsi riconoscere Negus Neghesti. Con il trattato che seguì, Menelik accettò la presenza degli italiani sull'altopiano e riconobbe di utilizzare l'Italia come canale di comunicazione di preferenza con i paesi europei. Quest'ultimo riconoscimento venne interpretato dagli italiani (e tradotto dalla lingua amarica di conseguenza) come l'accettazione di un Protettorato e per cinque anni sarà fonte di discordie fra i due paesi.
Queste differenti interpretazioni del trattato posero le basi per lo scoppio di un conflitto e la successiva avanzata italiana in Abissinia (ora Etiopia); ma la pronta reazione delle truppe abissine costrinse inizialmente alla resa. Dopo questa prima sconfitta l'Italia subì, il 1º marzo 1896, la definitiva e pesante disfatta di Adua, nella quale caddero sul campo circa 7.000 uomini. Il 26 ottobre 1896 fu conclusa la pace di Addis Abeba, con la quale l'Italia rinunciava alle sue mire espansionistiche in Abissinia. La disfatta provocò forti reazioni in tutta Italia, dove vi fu chi propose un immediato rilancio del progetto coloniale e chi, come una parte del partito socialista, propose di abbandonare immediatamente queste imprese.